La cura analitica: tra empatia e auto-empatia. Seminari di supervisione clinico/teorici

Il termine di empatia ha assunto nella letteratura psicoanalitica contemporanea un posto importante. La nozione, d’altra parte, non ha una specificità metapsicologica, quando Freud utilizzava il termine tedesco Einfühlung, utilizzava un termine ereditato dall’estetica tedesca. Indica innanzi tutto uno strumento/modo di conoscenza dell’altro, al cui interno l’affetto ha un posto particolare. Questo concetto viene messo in primo piano nei lavori di Kohut, in reazione agli eccessi dell’ego psychology e all’analisi considerata come processo che si basa solo sull’analisi delle difese, e nella letteratura anglosassone, parallelamente agli sviluppi teorici sul controtransfert e l’identificazione proiettiva che mirano ad una nuova comprensione del processo analitico, differenziandosi in certo qual modo dal cammino freudiano classico considerato “troppo razionale”  e dall’approccio solipsista al funzionamento mentale dell’analizzando.

Considerare il processo analitico in quanto incontro di due psichismo, del paziente e dell’analista, rimette in causa sia la funzione di “specchio” dell’analista e la prescrizione freudiana di osservatore “perfettamente neutrale” . Quando un analista si dichiara empatico nei confronti di un paziente non esisterebbe forse il rischio di confusione semantica con il termine più usato di “simpatia”, che suppone un’affinità morale, una similitudine di sentimenti, e anche una certa compassione e da ciò l’asimmetria dei processi mentali tra analista e analizzando non tenderebbe a cancellarsi? Quest’ultimo punto ricorda la critica spesso mossa alla corrente intersoggettiva che, fra l’altro, tende a relativizzare la dimensione storicizzante del soggetto a vantaggio di una attenzione ad una “esperienza emotiva correttiva” nell’hic et nunc della relazione analitica. L’empatia è più spesso considerata come un prerequisito all’interpretazione mentre invece è discussa la sua propria dimensione terapeutica.

Sono molteplici le questioni e gli interrogativi.

Se non si considera più l’empatia come “attitudine” dell’analista, ma come processo di “empatizzazione”, come definire per rapporto a ciò l’identificazione? L’empatia è una forma specifica di un processo di identificazione o è differente?Può essere considerata una sorta di identificazione parziale e transitoria o prevale la componente emotiva, un “sentire dentro” che si oppone ad un “vedere o comprendere dentro” più intellettuale? Si tratta di un processo conscio, preconscio o inconscio? In quest’ultimo caso, ancora una volta, che cosa la diversificherebbe dall’identificazione? Ricordiamo la definizione che ne dà R. Dorey che offre un elemento talvolta trascurato: “ Intuizione di ciò che accade nell’altro, senza tuttavia dimenticare che si è in se stessi, perché diversamente si tratterebbe di identificazione”. Infine si può dire con D. Widlöcher che “l’empatia non è un meccanismo in sé, ma un processo di cui dobbiamo precisare il o i meccanismi”.

Come pure per l’auto-empatia e l’uso del sé come strumento, teorizzazione ben espressa dai lavori dello psicoanalista Marino Milella. Scrive l’autore: “ Nel corso degli anni, sulla scorta di esperienze, ora positive, talvolta deludenti e dolorose, ma comunque arricchenti, sono giunto alla convinzione che per avvicinarsi a concepire l’altrui soggettività è necessario, innanzi tutto, essere sufficientemente accettanti una nostra complessità, nostri livelli di alterità interna e le molteplici voci, non sempre consonanti, che costituiscono la colonna sonora dell’essere noi stessi. Solo quando ci sentiamo, riusciamo a sporgerci dai nostri confini per percepire e riconoscere l’altro….Occupandoci della difficoltà del paziente ad abitarsi, siamo continuamente sollecitati a mettere in discussione il nostro rapporto con noi stessi perché i nostri confini non sufficientemente sostenuti da quelli adeguatamente coesi dell’interlocutore, dovendo esprimere un proprio equilibrio, una loro attitudine a sostenersi, possono denunciare, in senso assoluto, incertezza. Da queste affermazioni iniziali credo risulti evidente che considero un elemento caratterizzante l’incontro terapeutico ciò che ho definito pathos per l’alterità, una dimensione ideoaffettiva che alimenta di senso relazionale il nostro accostarci al mondo del paziente, sulla scorta di una curiosa e stupita auto-osservazione”

Tornando al discorso dell’empatia è indubbio che nella psicologia del self trova il suo fondamento nella diade madre-bambino, tuttavia non si confonde con un meccanismo di identificazione primaria, resta un’asimmetria, almeno quantitativa, tra analista e analizzando. Come non citare la “capacità di rêverie materna” o ancora l’identificazione proiettiva “normale” citate da Bion? Anche Winnicott, con la nozione di “preoccupazione materna primaria” ha sottolineato l’importanza, nella madre, di un atteggiamento di empatia che favorisca cure adeguate al bambino. Ma potremmo anche riferirci, all’inverso, alla preoccupazione che il bambino può sentire nei confronti della madre e porre, dunque l’interrogativo del rapporto tra empatia e compassione. La predisposizione all’empatia dell’analista sarebbe in relazione con le sue capacità di regressione al “materno” e/o alle sue identificazioni arcaiche?

Possiamo ancora pensare al “sistema paradossale” citato da M. de M’Uzan, sistema grazie al quale l’apparato psichico di un analista, accettando una certa alterazione del suo senso d’identità, diventa quello dell’analizzando. Così dei pensieri, dei fantasmi che esistono solo potenzialmente nel paziente, possono prendere forma nell’apparato psichico dell’analista. M. de M’Uzan situa topicamente i “pensieri paradossali” dell’analista ai “confini tra inconscio e preconscio”. Da dove si origina questo sistema? “esaminando le resistenze che si oppongono normalmente al sistema paradossale, ho la convinzione – scrive l’autore – che siano così vive perché il sistema stesso dipende, da un lato, da esperienze molto arcaiche contemporanee alla costruzione del soggetto, e, dall’altro, da un meccanismo elementare, profondamente radicato nel nostro essere, inseparabile dalla nostra carne”. Questo ci ricorda ciò che Husserl sosteneva parlando di transfert a-percettivo – a cui riporta l’empatia – sostenendo che non si sviluppa da mente a mente, ma da una carne ad un’altra carne.  Questo per sottolineare il punto di partenza corporeo dell’empatia e il fatto che forse l’empatia non è un co-pensiero ma piuttosto una co-percezione.

All’interno del ciclo di seminari clinico/teorici sarà obiettivo principale l’esplorazione di questi costrutti e l’analisi degli stessi attraverso la presentazione e la discussione di casi clinici.

Interrogativi importanti, connessi a questo tema, sui quali si rifletterà nel corso delle giornate riguardano anche la funzione del processo psicoanalitico a fronte del tema empatia.

Se non si considera più l’empatia come rispondente a dei momenti dell’analisi ma come sua problematica sistematizzata e generale, non rischiamo di privilegiare il ruolo delle emozioni e la loro condivisione nel processo analitico?

Piuttosto che il lavoro sulla rimozione e sulla rappresentazione, si potrebbe intravedere una direzione diversa dell’analisi che tenderebbe a lavorare per l’acquisizione di una stima di sé maggiore piuttosto che di maggiore responsabilità e libertà di azione?

 Programma del ciclo di seminari

Programma dott. Elia 2011-2012